Sabato sera la televisione ha trasmesso un lungo servizio su un film di prossima programmazione la cui eccezionalità consisteva nel fatto che, girato con attori veri, in un secondo tempo era stato trasformato in una sorta di cartone animato in bianco e nero, violento …
continuaSabato sera la televisione ha trasmesso un lungo servizio su un film di prossima programmazione la cui eccezionalità consisteva nel fatto che, girato con attori veri, in un secondo tempo era stato trasformato in una sorta di cartone animato in bianco e nero, violento e ricco di particolari sgradevoli. Forse il mio stomaco è troppo delicato, ma non credo sia questo il punto. Non essendo un esperto cinefilo, non affronto l’argomento dal punto di vista delle qualità artistiche o tecniche del prodotto, bensì da quello dei contenuti. Un pretesto per parlare della violenza, della cattiveria e l’aggressività intrinseche a gran parte delle attività umane, oggi. Qualità negative come requisiti essenziali per il successo personale, il gradimento, l’appeal estetico di tutto ciò che dobbiamo guardare, conquistare, possedere. Aggettivi usati per affascinare e attrarre, esattamente come affascinano e attraggono il sangue, la violenza, meglio se gratuita e fine a se stessa, la prepotenza come linguaggio, nello spettacolo come nella vita. Per fare carriera, sul lavoro, bisogna essere aggressivi e determinati; per una donna, poi, è opinione diffusa che sia meglio avere “due palle così”, evidentemente ignorando che l’orchite, nella fattispecie bilaterale, non è esattamente sintomo di buona salute. Gli aggeggi che vengono usati per non dover fare troppo i genitori e per tenere occupati bambini e ragazzetti tecnologicamente avanzati sono un delirio che va da mostri, divisi tra buoni e ferocissimi, ma comunque violenti, a marines più cattivi dei cattivi che devono combattere, da gare di auto e di moto destinate immancabilmente a sfasciarsi, a incontri all’ultimo sangue tra esperti nei vari modi di accopparsi. Obiettivo unico: far fuori l’avversario nel modo più violento e crudele, ma come se questo fosse un agire naturale. La mia età anagrafica mi impedisce di afferrare il senso educativo di tutto ciò, anzi, di capire che si tratta di attività ritenute propedeutiche alla vita, quella vera che i piccoli dovranno poi affrontare. Neppure i ragazzini che litigano si picchiano più tirandosi i capelli o dandosi pseudo cazzotti e calcioni alla cieca, come si faceva noi. Non penso che quei ragazzini possano più distinguere un telegiornale da un film o dalle app del loro accrocchio, ma di questo problema parlano già molto più autorevolmente, e altrettanto inutilmente, sociologi ed educatori: forse non sono abbastanza aggressivi e cattivi da farsi ascoltare con attenzione. Oggi per riuscire a vendere le auto bisogna dotarle di un frontale più aggressivo, di un motore più cattivo; le motociclette devono essere spigolose e con i fari sempre più simili agli occhi dei vari robot dei videogiochi; i tubi di scarico devono emettere ululati da brivido; persino le nuove biciclette, quando non fanno il verso al mobile d’epoca, sembrano destinate a terrificanti scontri con i percorsi più impervi, non a portarci da casa all’ufficio. Un semplice giubbotto, un berrettino, devono assomigliare a una divisa da mercenario; ragazzine dall’aria minacciosamente provocante scelgono, per infilarci i piedi anche a ferragosto, scarponi dall’aria truce che invitano solo a stare alla larga dalla loro portata. Tutto ciò attecchisce con estrema facilità su un terreno purtroppo tanto fertile quanto esteso: l’ignoranza. Oggi, 28 settembre, davanti al supermercato di via Muratori, a Milano, alle due del pomeriggio c’era parcheggiata una massiccia Jeep di non so quale modello: tinta grigio ferro, ruote da camion sotto enormi parafanghi cromati, una fila di quattro grossi fari, più gli altri quattro d’ordinanza, sparsi davanti al grosso radiatore, protetto da una grata cromata degna di un carcere di sicurezza, un paraurti da carro armato, anch’esso cromato e in grado di abbattere uno stabile di quattro piani. Il parabrezza era per metà coperto da adesivi attestanti l’appartenenza dei proprietari a non si sa quanti club e circoli di spericolati esploratori del pianeta Lombardia; il posteriore della cosa era tappezzato con gli adesivi di ogni tipo di traghetto che colleghi lo stivale alla Sardegna, all’Elba, alla Corsica. Il tutto con due ruote sul marciapiede e due giù. Una fortezza tanto costosamente avanzata dal punto di vista tecnologico quanto ignorante e volgare. Seduto dentro la fortezza c’era un bambino biondo di cinque o sei anni, in evidente attesa di mamma o papà: aveva i piedi appoggiati al cruscotto e guardava i passanti senza vederli. Qualcuno pensa che, da grande, compererà una tranquilla automobile, non aggressiva, non cattiva, adatta a portare a spasso la famigliola? Altamente improbabile, in un mondo nel quale degli adulti strapagati e detti addirittura “creativi”, per vendere un banalissimo shampoo partoriscono uno spot nel quale un giovane pugile ne demolisce letteralmente un altro con un solo pugno, senza neppure spettinarsi, sorridendo.