VII^
22/8/2014

Questa, più che una bottiglia, è un bottiglione di ringraziamenti che sento di dovere a molte persone, e la domanda potrebbe essere “perché non li fai personalmente?”. La ragione è che sono sì affari miei, nella fattispecie, ma che mi sembra siano poi un po’ di tutti, e che valgano la pena di una riflessione….

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Questa, più che una bottiglia, è un bottiglione di ringraziamenti che sento di dovere a molte persone, e la domanda potrebbe essere “perché non li fai personalmente?”. La ragione è che sono sì affari miei, nella fattispecie, ma che mi sembra siano poi un po’ di tutti, e che valgano la pena di una riflessione. Radio e televisioni, quotidiani e periodici, quasi ogni giorno riportano, con giusto rilievo, casi di “malasanità”, orrido neologismo spettacolare; alcuni dovuti a incuria o distrazione, altri a imperizia o errori professionali, a organizzazione carente o approssimativa del lavoro: tutti comunque classificabili legalmente dolosi. Non sto parlando delle “cliniche assassine”, dei casi di cinismo o addirittura di crudeltà, che allora di tutt’altro livello di responsabilità si tratta, parlo della normale routine dei grandi e piccoli ospedali pubblici, dell’operato di chi lì lavora e trascorre buona parte della propria esistenza. Nessun osanna si leva dai pubblici pulpiti per ogni laparatomia ben eseguita, per ogni catetere sostituito con delicata perizia, trapianto di fegato riuscito, indagine radiologica risolutrice, per ogni medicazione accurata: e pensare che sono milioni e milioni ogni anno! Non riesco a fare mia l’obiezione che “fanno solo il loro lavoro”. Dal 1994 a oggi ho avuto modo di entrare e uscire da un discreto numero di questi posti, per me, per amici, familiari. Personalmente in un caso ho avuto danneggiato irreparabilmente un occhio, in un altro ne hanno salvato quanto era possibile salvarne; in un altro ancora mi hanno dissecato una coronaria tentando di metterci uno stent che non ci passava, ma in un altro mi hanno subito riacciuffato  quando ero già stato dato per perso, e un giovane cardiochirurgo si è assunto la responsabilità di aprirmi come un pollo, rimediando all’errore del suo anziano collega. Altri infortuni minori completano il quadro. Mi è stato chiesto, dal mio assicuratore, da amici, e anche dall’allora mio medico di base, perché mai non facessi denunce, non intentassi cause per danni. Negli ultimi sei anni faccio un po’ dentro e fuori dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano: per me, per la compagna della mia vita e per persone alle quali siamo, o purtroppo eravamo, molto legati. Così, in questi pochi anni e in queste infinite notti d’ospedale, passate a guardare le luci della città tra le strisce delle tapparelle, cercando il pappagallo a tentoni o sorvegliando il respiro irregolare di un compagno di stanza, sono arrivato a darmi una risposta al vecchio interrogativo: perché non fossi mai stato tentato dall’idea  di una causa, di parlare di “malasanità”, di rivolgermi a una qualsiasi televisione. E ho scoperto che la risposta, per me, era una lunga serie di domande che non mi facevano sentire in diritto di fare nulla contro nessuna di queste persone, delle infinite altre che fanno parte di quel mondo. Un mondo dal quale pretendiamo giustamente le massime cure e attenzioni, ma senza interrogarci mai a fondo sulla vita delle persone che lo compongono. Senza pensare abbastanza al fatto che sono persone. Esigiamo la loro disponibilità, la loro gentilezza, l’assoluta perizia professionale, la tempestività delle risposte, l’infallibilità, ecco, soprattutto l’infallibilità, e l’assoluta, totale  concentrazione, per tutta la durata dei loro innumerevoli turni di lavoro. Cose che non esistono, che non si possono pretendere da nessun essere umano. Nemmeno il sommo creatore sembra essersela cavata troppo brillantemente, stando a quanto ci accade attorno. Quante vite avrà salvato, con interventi simili, il medico che mi ha dissecato la coronaria? Per quanti anni ha distribuito medicinali senza sbagliare l’infermiera che una sera ha dimenticato la flebo, o scambiato le pillole di un paziente? Che percentuale d’insuccesso rappresenta la sorte del mio occhio, nella carriera di quell’oculista, e quante altre persone ci vedono grazie a lui? Cosa accade nella vita privata di quell’ausiliaria che è sempre così nervosa, ruvida? E un chirurgo, che magari attraversa un difficile momento della propria vita, o che è reduce da un intervento finito fatalmente male, dove va a trovare la forza e la freddezza necessarie, il coraggio per entrare in sala operatoria alle sei di un mattino grigio e aprire una pancia? Quanti pappagalli hanno dovuto vuotare, nel corso di un turno che si ripete nella vita all’infinito, quella donna o quell’uomo che sembrano pensare che tu lo riempia apposta, il tuo? Che fatica richiede una vita trascorsa ricavando verdetti da una immagine? Quanta energia, mentale e fisica, quanta dedizione, anche non necessariamente spontanea, richiede il prendersi cura ogni giorno, assiduamente fino alla nausea, di corpi malati, feriti, sporchi, spesso inevitabilmente sgradevoli? Che sforzo richiede conservare un pezzo di sé per se stessi, per la propria vita privata? Ecco, queste sono solo una parte delle domande che mi sono dato in risposta al vecchio quesito: perché non hai fatto causa? Perché non ho il diritto di chiedere a nessuno di non sbagliare proprio con me, perché posso augurarmelo, ma non pretenderlo. Finora, dopo un discreto numero d’interventi, mi sono svegliato, e ringrazio tutti, ma proprio tutti, dal profondo del cuore. Non l’ho mai dato per scontato, quel risveglio, però ero certo che tutti, proprio tutti, avrebbero fatto quanto di meglio erano in grado di fare quel giorno, in quell’occasione, nello stato d’animo in cui si trovavano. Ho già grosse difficoltà a credere nell’infallibilità di un dio, non cercherò né pretenderò quella di un mio simile.