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2/3/2016

Rileggendo l’ultima bottiglia credo di aver capito una cosa. Com’è ormai evidente l’Europa tutto è meno che avviata a diventare Stati Uniti d’Europa. A voler essere pignoli, e però realisti, sta addirittura arretrando vistosamente…

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Rileggendo l’ultima bottiglia credo di aver capito una cosa. Com’è ormai evidente l’Europa tutto è meno che avviata a diventare Stati Uniti d’Europa. A voler essere pignoli, e però realisti, sta addirittura arretrando vistosamente, rispetto al livello di integrazione che solo pochi anni fa davamo per consolidato. Io penso, purtroppo, che in buona misura dipenda dalla fretta eccessiva e dagli interessi per i quali si è voluto allargare il perimetro geografico del progetto. Invece le ragioni ufficialmente individuate come trainanti per questa tendenza negativa sono costantemente tenute sotto gli occhi di tutti, e a tenerle bene in vista ci pensano i media di ogni ordine e grado, più o meno tecnologici che siano: crisi e immigrazione. Non sono un economista, ma non mi sembra neppure necessario esserlo, per poter ipotizzare che la prima è dovuta, almeno in buona misura, al processo di globalizzazione selvaggio e privo di regole condivise tra i paesi partecipanti al gioco. La seconda, cioè l’esodo tragico al quale stiamo assistendo e del quale è giocoforza che ci facciamo carico, discende da un ininterrotto sfruttamento coloniale, perpetrato per secoli in modo diretto e, da un certo punto in poi, per interposto dittatore o governo locale. Non c’è più nessun Cortés Pizarro a massacrare Aztechi, ovviamente, e nessun generale Lee a difendere, spada in pugno, l’istituto della schiavitù. Basta permettere che a tre ore d’aereo da qui si possano lapidare le persone e pagare i lavoratori con due lire locali, un paio di jeans e un tetto di lamiera o di tufo. Basta delocalizzare le fabbriche e usare quelle differenze di trattamento (eufemismo delicato), per moltiplicare il proprio profitto e spostare altrove i danni da inquinamento eccetera. E non sto ancora parlando di quanti invece scappano da situazioni dove vivevano tranquilli, e nelle quali varie interpretazioni di un dio e sogni deliranti di fanatici e dittatori si stanno prendendo a cannonate. Ma io non vedo sostanziali differenze di diritti tra chi fugge da una vita di miseria e sfruttamento e chi invece da un’assurda carneficina. Torniamo ora ai mancati Stati Uniti d’Europa. Perché, mi chiedo, nonostante gli sforzi di quei (pochi) governanti che hanno sognato e sognano questa federazione di stati, con fondamentali regole comuni di vita, di lavoro, di welfare, stiamo invece assistendo alla disgregazione e alla messa in discussione anche di quel poco che sembrava possibile raggiungere? Perché, mi rispondo,  per far progredire questo processo fondativo bisognerebbe che tutti, ma proprio tutti i paesi che sono entrati a far parte della comunità, fossero disposti a rinunciare a qualcosa: chi a raggiungere un rapido progresso, sfruttando la povertà del proprio popolo e la propria arretratezza come merce di scambio, e chi ad arricchirsi ancor più sfruttando quell’altrui arretratezza e povertà. Già, ma detto questo non si capisce bene chi ci guadagni: dunque, i popoli no, né quelli ricchi, che si impoveriscono, e nemmeno quelli poveri, visto che i ricchi di oggi non potranno più comperare ciò che essi ora producono. Sembra un discorso senza senso, ma non è così. Ciò che impedisce una reale fusione dei nostri paesi, è, ancora una volta, il miope interesse di pochi: industriali, faccendieri, finanzieri, politici collusi e di basso conio, imprenditori. Tutti quelli che non accetteranno mai, a meno che non venga loro imposto, un salario minimo europeo, un sindacato europeo, un sistema fiscale europeo, una politica estera europea. A loro va bene così: un terzo mondo salariale e fiscale qui, dentro casa, al sicuro da bombe e rivoluzioni, sotto l’ombrello protettivo di quel poco di Europa che c’è, e che oggi fa loro comodo. Come pare che dicesse Luigi XV: “Après moi le deluge!”, e il domani non è cosa che li riguardi. Gli immigrati sono un fenomeno che viene a turbare gli equilibri del redditizio disequilibrio interno alla Fortezza Europa. Ma la storia insegna che le fortezze, da che mondo è mondo, se non aprono le porte finiscono col rimetterci le mura.