Inadeguatezza, ecco: la sensazione che mi pervade ormai troppo spesso quando ho a che fare con la mia città è quella di non sentirmi più adeguato, adatto, capace di misurarmi e rapportarmi con lei.
continuaInadeguatezza, ecco: la sensazione che mi pervade ormai troppo spesso quando ho a che fare con la mia città è quella di non sentirmi più adeguato, adatto, capace di misurarmi e rapportarmi con lei. Anche estraneità, ma forse inadeguatezza è davvero la definizione più calzante. Ho cominciato a conoscerla e amarla più di cinquant’anni fa, agli inizi dei mitici Sessanta, in pieno boom economico: fabbriche, teatri, locali con musica dal vivo ovunque, cinema, lavoro duro, ma lavoro per tutti, politica appassionante, tensioni sociali, certo, ma in una società che sperava, che lottava per realizzare un futuro possibile e migliore. Era una città che si alzava presto ogni mattina, che raramente si alzava oltre il settimo piano, l’ottavo, decimo dei palazzoni delle nuove periferie; una città che si capiva che avrebbe potuto diventare, e che immaginavamo che sarebbe diventata, in ogni senso più alta, ma insieme ai suoi abitanti, con e per loro. Non senza di loro. E invece ho la sgradevole e netta impressione che sia stata scelta e realizzata la seconda ipotesi. Senza dubbio più comoda e appariscente, più redditizia e appagante, più adatta ai nuovi modelli di imprenditoria, al nuovo management, alle nuove professioni e ai nuovi attori, accorsi da ogni dove sul palcoscenico cittadino. L’unico che potrebbe cantarla, che saprebbe trovare ancora le parole per cantare Milano con affettuosa ironia e senza crudo sarcasmo, se n’è andato. Io non sono capace della generosità di Enzo Jannacci. Sono troppo intriso di un povero sinistrismo libertario ormai ridicolizzato dalla storia. Mi dispiace, ma mi riesce solo di capire che è più onesto tacere, visto che non ho la capacità di adeguarmi, e nemmeno l’età e l’energia necessarie a tentare. Posso parlare d’altro e vivere discretamente lo stesso: è anche una bella città che si lascia guardare dalla finestra, o da un marciapiede, con la borsa della spesa in mano. Magari cercando di non farsi travolgere da un ciclista, consapevole ed encomiabile portatore sano di salute e rispetto per l’ambiente, e di arrogante indifferenza verso gli appiedati. La città ha schizzato verso l’alto una piccola selva di guglie, in un riuscito e tardivo, appariscente tentativo di assomigliare un poco alle altre grandi metropoli. I milanesi che ci girano in mezzo, il sabato e la domenica, mi ricordano un poco quelli che, cinquant’anni fa, andavano in Piazza del Duomo, alle giostre sulla spianata delle Varesine, o a prendere un gelato dall’omino col triciclo bianco a navicella, davanti al Castello Sforzesco. Ma quelli avevano l’aria di godersi qualcosa che era alla loro portata, che capivano. Questi loro figli e nipoti hanno stampata sul volto l’espressione di meravigliata ammirazione propria di chi non comprende bene ciò che sta guardando, di chi da quella bella cosa si sente comunque escluso. Ed è la loro città, quella cosa che se n’è andata verso l’alto, da sola.