XXXIV^
17/5/2015

Jean, un caro amico francese che credo ami molto l’Italia soprattutto per le qualità che gli italiani non sanno di avere, mi chiede che cosa penso dell’Expo e di ciò che vi accade intorno, plauso e contestazioni inclusi…

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Jean, un caro amico francese che credo ami molto l’Italia soprattutto per le qualità che gli italiani non sanno di avere, mi chiede che cosa penso dell’Expo e di ciò che vi accade intorno, plauso e contestazioni inclusi, dandomi così l’occasione per riprendere a gettare bottiglie in mare. Confesso che non mi è facile accontentarlo, in parte perché sono fermamente deciso a non mettere piede all’interno dell’immenso recinto, e molto perché, a suo tempo, sono stato altrettanto decisamente contrario alla candidatura della mia città a questo evento. Contrario per tre motivi.

Il primo è che non credo che per parlare di un argomento così serio qual è la necessità di nutrire il mondo, e soprattutto per pensare a come risolverlo, sia utile e necessario investire una valanga di quattrini in una enorme fiera campionaria enogastronomica a uso di chi ha i soldi per frequentarla. Il secondo è che una città ricca, votata al commercio, alla moda e al design come Milano, non può, e a mio avviso non sa, affrontare un argomento tanto serio con la dovuta, rispettosa sobrietà: se fossi un povero abitante del pianeta afflitto da denutrizione credo che mi sentirei pesantemente offeso da tanto rutilante spreco di denaro. Il terzo è che in quest’era di comunicazione globale e istantanea, in questo mondo in cui tutto, ma proprio tutto, dalla targa della mia auto al numero di telefono di Gorbaciov, è alla portata di chiunque abbia interesse a conoscerlo e possieda un minimo di dimestichezza con mouse e tastiera, non vedo che utilità vera abbia una fiera di queste dimensioni, e di questo costo: chi desidera essere informato lo è, punto. Non mancano le sedi internazionali nelle quali il mondo, ricco e non ricco, dovrebbe confrontarsi, seriamente e lontano dai riflettori, su come porre rimedio alla disumana condizione di chi non ha di che nutrirsi contrapposta a quella di chi, come noi, intasa le pattumiere di cibo sprecato, e, già che c’è, interrogarsi davvero sul modo di evitare che la fame, quella vera, non finisca per abbracciarci tutti, in un futuro non lontano. Ero contrario all’Expo, dicevo, ma, una volta persa la battaglia sul farla o non farla, non vedo che utilità ci sia a continuare a percorrere la città urlando che “io non la voglio”: lo sanno, e la cosa non interessa né alla politica né agli operatori commerciali internazionali che si sono comperati una vetrina nell’enorme supermercato. Dei fracassatori di automobili e vetrine non è neppure il caso di parlare: sono a mio parere assimilabili alla teppaglia violenta che riempie gli stadi solo perché lì ci si può esprimere al massimo livello di bestialità; calcio, Expo, G8 o TAV, sono solo pretesti, occasioni fornite su un vassoio d’argento sia a loro che alla stampa, ai telegiornali e all’opposizione di turno. Sarà il caso che i vari movimenti smettano di atteggiarsi a vittime, e si interroghino davvero sulle loro responsabilità: senza la connivenza dei trentamila manifestanti “pacifici” non c’è spazio fisico o ideologico per cinquecento delinquenti. Anche nelle manifestazioni operaie di tanti anni fa i provocatori c’erano, ma finivano male. E veniamo a Milano, alla città e ai suoi abitanti, a che cosa accade attorno al Grande Evento, atteso da tutti come momento di rilancio dell’economia, come momento magico capace di farsi perdonare gli innumerevoli cantieri, i “disagi temporanei” durati anni, gli investimenti di denaro pubblico forieri di un radioso avvenire: bene, i cantieri sono ancora aperti, i disagi sono diventati permanenti, i commercianti e i ristoratori si lamentano come da copione. Tutto normale, semplicemente nessuno aveva capito che l’Expo si svolge in realtà tutta dentro il recinto perché è un evento autoreferenziale, all’interno del quale tutto accade e tutto si consuma: con l’esclusione di albergatori e b&b, per ironia della sorte sottrarrà clienti e frequentatori anche alla città che tanto l’ha atteso e voluto. Se ricaduta ci sarà, per Milano o per l’Italia, sarà perché un cinese, o un lettone piuttosto che un nigeriano, venuto fin qui per l’Expo, magari con moglie e figli, difficilmente non ne approfitterà per vedere anche la Cappella Sistina, la Valle dei Templi, Palazzo Vecchio o il Duomo e il Castello Sforzesco, o anche solo per acquistare in un outlet qualsiasi del design o della moda qualche cosa da riportare a casa per ricordo, o da copiare. A noi resteranno senza dubbio delle strade risistemate, dei tratti di metropolitana che verranno terminati prima o poi, un nuovo agglomerato urbano irto di guglie incongrue, anche se bello da vedere, una grande quantità di palazzi di lusso sfitti, o venduti o affittati ai nuovi ricchi del pianeta, russi, cinesi, arabi e via elencando.

Non so se è quello che ti aspettavi che ti dicessi, caro Jean, ma è ciò che onestamente mi sento di dirti, sperando sinceramente che i fatti mi diano torto.