XXXIII^
17/2/2015

Si muore, caro principe De Curtis, si muore, ma uno come me, che non crede in un dopo migliore, non riesce proprio a ravvisare il caro estinto in un cadavere.

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Si muore, caro principe De Curtis, si muore, ma uno come me, che non crede in un dopo migliore, non riesce proprio a ravvisare il caro estinto in un cadavere. Lo riconosce solo in ciò che è stato, nelle cose che ha fatto, che ha detto e pensato, in ciò che lascia in chi lo ha conosciuto, incontrato. Quindi, mi dispiace, ma la morte non è -’a livella-. La morte livella le scatole, i contenitori, i corpi, non lo spirito, il pensiero, ciò che li rendeva vivi e diversi l’uno dall’altro. Ed è per questo che di nessuno dovremmo ignorare il nome, la vicenda umana, la sofferenza e la fantasia, forse soprattutto la fantasia, e la speranza. Di nessuno dovremmo ignorare il perché della morte, perché ignorare ciò che conduce un essere umano all’epilogo della sua storia, le ragioni e le circostanze, il rito di questo epilogo, significa cancellarne l’intera esistenza: ci rende poveri, tutti più poveri. Questo è il vero orrore della carneficina ininterrotta che sta percorrendo il mondo. Com’è possibile attendere ancora la sferza calda del sole per veleggiare, nuotare, giocare sulla superficie di questo mare che arrogantemente chiamiamo Nostrum, e che altro non è più che un’immonda fossa comune, tragicamente abbracciata alle altre mille che nei secoli hanno ingoiato le indistinguibili carni da macello alle quali non era più possibile attribuire compiutezza umana,  perché le guerre strappano spesso anche i nomi, insieme alla vita, relegando il ricordo in una stele pietosa all’Ignoto. Una liquida fossa, questo Mediterraneo, che non ha ingoiato solo involucri, come accade nei nostri ordinati cimiteri ben curati. Perché di questi nostri riconoscibili involucri ci rimane memoria, testimonianza di vita, pensiero, azione; persino di quelli dei quali nulla sappiamo possiamo leggere i nomi, incisi nella pietra dal rispetto, se non addirittura dall’amore, dal rimpianto. E del contenuto di questi involucri siamo permeati e forgiati: con le opere di chi ha scritto, di chi ha dipinto, di chi ha eretto case o anche semplicemente fatto il bottegaio, onesto, disonesto, il pescatore o il musicista, lo scienziato, l’insegnante, la madre. Di tutti, anche dei più modesti, di quelli mai incontrati per strada. Ma tutto l’immenso patrimonio umano che non ha fatto in tempo, che non è arrivato ad alitarci addosso la sua spiritualità, che non è arrivato a trasmetterci il contenuto del suo povero involucro, ebbene, questa sì è una perdita per la quale dobbiamo provare vero dolore, sentire la privazione. Usiamo l’affascinante desolazione sahariana per farci gare motociclistiche o vacanze motorizzate pseudo avventurose; ed è la stessa sabbia che ingoia a migliaia esseri disperati che vorrebbero solo vivere, conoscerci, poter mescolare la loro vita alla nostra, il loro sapere al nostro, forse inconsciamente protesi verso la creazione di un sentire e sapere meticcio che ci renda compatibili gli uni agli altri. Non uguali, che nessun essere vivente è uguale all’altro, ma compatibili, in grado di arricchirci  scambievolmente, di conoscerci oltre l’involucro, quell’involucro che una violenza stolida, crudele, distrugge mentre cerca di raggiungerci e fare del suo spirito il nostro  prossimo. Il mare nel quale il nostro paese allunga la sua strana forma, sovraccarica di cultura, storia, intelligenza, partorisce e nutre oggi personaggi squallidi e ignoranti come un Salvini o un Borghezio, che non sono nulla di meglio dei miserabili scafisti che questo stesso mare vanno riempiendo di corpi martoriati e depredati. Come può, chi governa questo paese, sostenere spudoratamente la colossale menzogna che un’Expo, che si vuole teso a risolvere il problema dell’alimentazione nel mondo, o la necessità di rendere raggiungibile un luogo qualsiasi di questa vecchia Europa risparmiando un’ora di viaggio, se non addirittura un campionato di calcio o una “bretella” autostradale, siano i validi motivi per cui non abbiamo i soldi che permetterebbero di sottrarre a una sparizione tanto tragica, anonima e totale, questi poveri involucri, pieni di chissà quali ricchezze che non sapremo mai? Non abbiamo più il diritto di dirlo Mare Nostrum, così come è finito il tempo in cui potevamo credere che la morte, imparziale, fosse davvero ciò che dice una bella poesia di Totò. Sul molo, ad attendere quei pochi che sopravvivono, a consolare i vivi e ad aiutarli a piangere e contare i morti ci sono solo gli uomini e le donne delle regioni più povere e abbandonate di questo paese. E’ Lampedusa, è il Sud a tendere la mano. Il resto del Bel Paese e dell’Europa, almeno per ora, non ha bisogno di altri schiavi, non ufficialmente. Però inorridisce.