XXIV^
2/12/2014

In una precedente bottiglia parlavo di case da abitare. Visto che ancora non so se saremo o meno costretti ad andarcene dalla nostra mansardina, è forse comprensibile come l’argomento sia ancora una sorta di chiodo fisso…

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In una precedente bottiglia parlavo di case da abitare. Visto che ancora non so se saremo o meno costretti ad andarcene dalla nostra mansardina, è forse comprensibile come l’argomento sia ancora una sorta di chiodo fisso piantato nel mio cervello. Stamane, nel dormiveglia, cercavo di capire perché mi fosse tanto difficile affrontare il problema senza inquietudine, e siccome credo di aver trovato la spiegazione provo a scriverne, che per me è sempre il sistema migliore per chiarirmi le idee. Pochi giorni fa abbiamo venduto la casa dei miei suoceri, una bella casa grande con l’unico difetto di essere collocata in una zona meno centrale e appetibile di quella nella quale abitiamo ora, e alla quale siamo affezionati. Così ho capito che la principale ragione che ha spinto la mia compagna a venderla, ad escludere quindi l’eventualità di andarci ad abitare, era la inevitabile coabitazione con il ricordo dei suoi cari e la sofferenza per la perdita subita; cioè la stessa per la quale io, pur non amando quella zona e quella casa, avrei accettato l’idea di andarci. Ho capito che subisco il fascino delle case già abitate, delle cose usate, persino degli abiti già appartenuti, già indossati da altre persone, specie se mi sono state care, ma anche se sono state usate da estranei. Una bella giacca, un giubbotto che mi piaccia, acquista valore dal fatto di essere stato scelto e usato da altri prima di me. Ho capito di non temere i ricordi, quando la traccia lasciata appartiene a una persona che mi è stata intima, anzi, ho appunto capito che non ristrutturerei mai radicalmente un appartamento già abitato da altri. Potrei certo stabilire che non mi piace, che non ci vado ad abitare, ma una volta che decidessi di trasferirmici so che sarebbe perché mi piace la forma che gli ha dato chi ci ha vissuto prima di me. Cambierei colori, materiali, mobili, forse allargherei un bagno o sostituirei degli infissi, ma so che terrei un pezzo del vecchio arredamento, che non stravolgerei mai, cancellandola, la storia di quella casa. La casa dei miei suoceri, due belle persone che anche io ho amato molto, è stata acquistata da due giovani che ci sono piaciuti subito, che ci sono sembrati degni di quella casa costata anni di sacrifici, che ci hanno fatto pesare meno quella sorta di secondo, doloroso distacco che è l’abbandono delle cose che fanno parte di un passato al quale siamo grati, affettivamente e intimamente legati. Faranno cambiamenti, certo, miglioreranno molte cose, la renderanno più funzionale, ma quella casa a loro è piaciuta così com’era, ci è sembrato, e questo ci ha consolato. Non mi piacciono e non subisco il fascino delle case nuove, non nel senso di moderne, ma nel senso di non ancora abitate. Ecco, ho anche capito che non riuscirei mai ad andare ad abitare una casa già vissuta partendo dal presupposto di raderla al suolo per rifarla secondo un mio disegno; quando e se disgraziatamente accadrà che si debba traslocare, sarà solo in un’abitazione che ci dovrà parlare, che dovrà dirci delle cose di sé, e quelle cose dovranno essere compatibili con noi due, dovranno in qualche modo essere capaci di accoglierci. Come quando in un mercatino, in mezzo a un mucchio di altre cose vedi un colore, prima, poi allunghi una mano ed estrai una giacca, un golf, te li provi, ridi contento, paghi, te li porti a casa, perché sono sempre stati anche tuoi.