XXIII^
26/11/2014

Ieri sera mi è stato chiesto se avrei mangiato volentieri per cena un po’ di trota salmonata, ne ho istintivamente ricordato il sapore particolare, buono, e ho risposto di sì. Fin qui la cosa non sembra meritare una bottiglia, anche se vuota, ma ciò che quel semplice sì ha messo in movimento forse la merita….

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Ieri sera mi è stato chiesto se avrei mangiato volentieri per cena un po’ di trota salmonata, ne ho istintivamente ricordato il sapore particolare, buono, e ho risposto di sì. Fin qui la cosa non sembra meritare una bottiglia, anche se vuota, ma ciò che quel semplice sì ha messo in movimento forse la merita. A tavola mi sono ritrovato nello stato d’animo che mi coglie ormai da molti anni, quando ho davanti un piatto di carne, di qualsiasi provenienza animale essa sia: lo stato d’animo di chi non può fare a meno di immaginare quell’animale guizzare o correre libero, e contemporaneamente ne osserva le spoglie, confezionate, cucinate, artisticamente o sciattamente truccate post mortem dalla nostra cultura, disposte su un tondo o un ovale di ceramica. Il sapore della carne, quasi di ogni genere di carne, mi piace, non ne vado pazzo e non ne soffro la mancanza, ma mentirei se dicessi che non mi piace. E so che riuscirei a gustarlo, ma solo compiendo una volontaria astrazione: togliendo a quanto ho nel piatto l’ovvio diritto alla vita, al possesso di un aspetto fisico, uno sguardo, un modo a me noto di muoversi. Insomma, un’operazione della quale non sono più capace, con la conseguenza che quando di tanto in tanto, anche se raramente, salta fuori la storia che -devo mangiare un po’ di carne…, le proteine…, i globuli rossi…, il ferro…- mi decido ad accettare, ne mangio un po’ e poi resto con questi pensieri a farmi compagnia. Il fatto è che una volta approdato a questa consapevolezza, a questo processo di  identificazione con quanto giace nel mio piatto, non c’è più spiegazione o giustificazione che tenga. Perché di questo si tratta, in ultima analisi: io non riconosco all’animale uomo una capacità maggiore di provare dolore, sentimenti, sensazioni e stati d’animo di quella che riconosco agli esseri che appartengono alle altre specie. Anzi, per essere esatti, sempre più raramente trovo negli occhi di un umano ciò che ho trovato nello sguardo di altri animali. In realtà non abbiamo più nessun bisogno di uccidere per mangiare e nessuna giustificazione per farlo. Chi ancora oggi va a caccia, nel nostro ricco mondo occidentale, lo fa per il gusto di uccidere e non è certo superiore in nulla alle sue vittime, e neppure migliore dei cani di cui si serve: essi, lasciati a se stessi, si limiterebbero a scovare la selvaggina, a puntarla o a metterla in fuga. E quando attaccano un cinghiale o un’altra preda lo fanno perché obbediscono a un istinto che noi non abbiamo più il diritto di rivendicare come nostro, noi che non ci muoviamo di casa se non abbiamo almeno un aggeggio dotato di GPS in tasca. Ecco perché spero proprio di aver mangiato la mia ultima trota salmonata. Come Sir Paul McCartney dimostra, si può invecchiare bene, con allegria persino, conservando neuroni e prestanza fisica, lasciando in pace pennuti, pinnati e quadrupedi. D’accordo, lui è ricco e famoso, e bravo, aggiungo io; però, a parte questo piccolo handicap, forse posso farcela anch’io.